Fratel Angelo Sala: “Fare, poco…, ma con Amore”

Fratel Angelo Sala: “Fare, poco…, ma con Amore”

Pubblichiamo uno stralcio dell’articolo fatto da fr. Angelo Sala, Direttore del Centro di Cura “Saint Michel”, riportato sulla NEF (Nouvelles En Famille) bollettino della Congregazione del Sacro Cuore di Gesù di Bétharram. (Per leggere l’interno numero cliccare qui)

 

Il Centro di Cura “Saint Michel”  inaugurato nel 2010 é nato con lo scopo di dare un’assistenza globale ai malati di AIDS. Questo progetto è tutt’ora operativo ed ha in carico  più di mille pazienti tra i quali un  centinaio di bambini sieropositivi orfani. Il Centro organizza un percorso di sensibilizzazione nelle  scuole  o in diverse manifestazioni che  si svolgono regolarmente sul territorio. Dopo questi anni di servizio nella città di Bouar, ci siamo  resi conto che iniziavano  ad  arrivare  persone anche dai vari villaggi limitrofi, percorrendo anche decine di chilometri  a piedi per poter essere  curati.  Considerando che una terapia antiretrovirale è una terapia che deve continuare per tutta la vita e che,  per  evitare  che si formino resistenze a questi farmaci, si deve cercare di essere fedeli ad un appuntamento che  è dato regolarmente al malato. Il paziente perciò deve recarsi nel  nostro centro sanitario per  sempre. Questo comporta uno spostamento dal suo villaggio al Centro almeno una volta ogni  tre mesi, sempre se la salute fisica e la possibilità economica glielo permetteranno(…).
Ma questo  non é sempre facile, visto le difficoltà economiche nelle quali versano gli abitanti dei villaggi: dovrebbero quindi oltre che pagare le spese sanitarie anche quelle di trasporto.
Tutto questo mi ha fatto riflettere e mi ha spinto  ad elaborare un progetto  che  potesse andare incontro alle necessità di questa gente emarginata e dimenticata dalle istituzioni civili del Paese. Da questa riflessione è  nato un progetto di unità mobile, che  consiste  in una jeep  attrezzata con il mini- mo indispensabile per poter curare le patologie più semplici che si possono riscontrare nei villaggi (…). Il fine del progetto è di promuove- re una sensibilizzazione e fare dei test HIV alla popolazione che non ha facile accesso a un centro sanitario,  quindi una diagnostica precoce prima della manifestazione di infezioni opportunistiche.

 

 

In  questa  missione  mi  sono reso conto del limite che ho incontrato di fronte  alla sofferenza e  alla  miseria.
San  Giovanni Paolo II ha detto: “La sofferenza umana  desta compassione, desta anche rispetto, ed a suo modo intimidisce.” (Lettera Apostolica “Salvifici Doloris”,4). Non  solo  vedere, ma toccare con mano  la miseria e la sofferenza in cui versa questa parte di popolazione centrafricana e della cui salute  e del cui sviluppo  nessuno si occupa, sfugge  un  po’ alla  mia  comprensione e devo  dire che rimane un po’ come un mistero ineludibile.

Mi  rendo  conto che  quello che faccio per loro mi sembra veramente poco. Tanto  che,  se non  fosse  per  la gente stessa dei  villaggi  che  visitiamo  e che  ci incoraggia a continuare perché  portiamo un  po’  di  sollievo alla loro sofferenza, avrei preferito abbandonare  questo  progetto.  Ma il coraggio e  l’entusiasmo di andare avanti  ha  ripreso forza  grazie  al nostro  fondatore San Michele  Garicoïts che ci invita ad essere vicino a questi fratelli nelle  loro  periferie esistenziali. Per San Michele servire i fratelli nella sofferenza significa  testimoniare Gesù:  “Dal cuore  di Gesù  al cuore del  mondo”. Anche  la nostra Regola  di Vita ci ricorda che dobbiamo impegnarci  nella   promozione umana. Ci invita  a  partecipare  “alle  attività  che  favoriscono lo sviluppo della persona umana”, prendendo anche delle iniziative “a favore degli  emarginati; in modo mirato per aiuti urgenti,  come pure in opere per combattere la malattia,  la precarietà, l’ingiustizia e la povertà.” (RdV n. 125).

Quindi  mi sono  sentito spinto  ad aprire  gli occhi per vedere le ferite di tanti fratelli e sorelle  privati di dignità e così sentirmi  chiamato ad ascoltare il loro grido  di aiuto.
Il motore di un progetto d’aiuto  è l’amore,  come diceva  il nostro fondatore:  “Datemi un  cuore  che  ami  veramente. (…) L’amore,  ecco  ciò  che conduce l’uomo.” (DS § 101).

In un  progetto non  è  importante solo  il dare  qualcosa, ma anche entrare in empatia con le persone sofferenti che incontriamo, come ci ricorda il documento Identità  e missione del fratello  religioso  nella Chiesa  (n. 27): «La missione del  fratello  (…), per  un lato, è frutto  di un cuore  che si lascia  prendere dalla compassione per i bi- sogni e le miserie dell’umanità; in queste necessità sente la chiamata  di Cristo che lo invia a calmare la fame nelle sue varie forme;  il suo carisma lo farà particolarmente sensibile a qualcuna di esse. Ma non basta! Il fratello, la cui vocazione ultima è identificarsi  con  il Figlio dell’uomo, si sente sospinto a farsi come lui: fratello dei più piccoli. In tal modo può a sua volta offrire, at- traverso la missione, il dono della fraternità che ha ricevuto e che vive nella propria comunità. Si tratta di un dono i cui destinatari sono i fratelli minori con  i quali Cristo si è identificato. La missione non è “quello che fa”, ma la sua stessa  vita, trasformata in comunione  con  i piccoli: “Perché  il dono non  umili l’altro, devo dargli non  soltanto  qualcosa di mio, ma me stesso; devo essere presente nel dono come persona”. (Deus caritas est, 34)».