Volontariato é: Ugo, un GRAZIE per sempre

Volontariato é: Ugo, un GRAZIE per sempre

Per la rubrica “Volontariato é” oggi desideriamo condividere alcuni piccoli (ma grandi) episodi di missione vissuti (e raccontati) daUgo Zugnoni, il “decano” dei volontari italiani nelle missioni in Repubblica Centrafricana.

Non avete mai visto un prete piangere? Io sì: di tristezza ma anche di gioia, e vi spiego dove.
Dal 1997 a oggi io mi sono recato ben 14 volte nella missione di Niem, nella Repubblica Centrafricana, come volontario, quindi posso dire di aver avuto modo di conoscere molto bene i missionari che vi lavorano.
In particolare ho potuto osservare da vicino padre Tiziano Pozzi, che a Niem lavora da 25 anni come prete e dottore in un ospedale da lui fondato.
È veramente il padre di tutti e come medico cura i pazienti tutti allo stesso modo: non avendo molte medicine, allevia le loro sofferenze anche tramite l’amore, il dialogo e l’ascolto. Mi sembra di vederlo: quando incontra qualcuno di molto povero, mette la mano in tasca e tira fuori qualche monetina. Ecco, per me questo è davvero spezzare il pane: «Prendi e mangia un po’ di pane anche tu»…
Un altro strumento che padre Tiziano impiega sempre è la pazienza: potrei parlarne a lungo, ma dirò solo alcune cose.
Quando sono “laggiù” con lui, la mia camera e la sua sono divise solamente da una piccola parete e perciò le due porte si trovano vicine.
L’ospedale dista circa 150 metri da dove risediamo quindi, specialmente di notte, il guardiano lo avvisa se arriva qualche malato urgente o una donna che deve partorire; quando bussano alla sua porta, allora, è come se bussassero alla mia… Se devo dire la verità, in tutti questi anni non l’ho mai sentito lamentarsi una volta: si veste in fretta e via di corsa.
Tante notti lo chiamano anche due o tre volte e alla mattina si alza sempre alle 5.30 perché alle 6 deve celebrare la messa. Poi colazione e la giornata ricomincia.
Una notte, verso le undici, qualcuno picchiava alla sua porta con tanta insistenza che mi sono alzato anche io. Era un uomo sui trent’anni. Dato che padre Tiziano tiene sempre la luce accesa fuori dalla sua porta, l’ho potuto osservare bene: si vedeva che aveva corso molto, faceva fatica a respirare. Appena si é ripreso un po’ chiede qualcosa al dottore: io non capisco niente, tuttavia propongo a padre Tiziano di accompagnarlo. Bisogna fare in fretta, corriamo verso la sua jeep. Mi viene detto, infatti, che dobbiamo andare a prendere una donna, a circa 30 chilometri da lì.
Dopo un’ora di viaggio le luci dell’auto ci mostrano tre uomini in piedi, a fianco della strada; ci fanno segno di fermarci.
La scena è impressionante: vedo una donna molto giovane distesa su una specie di stuoia e un fagotto di stracci.
Padre Tiziano capisce subito cosa è successo: questa ragazza ha appena partorito; infatti nel fagotto c’è un neonato, non in ottime condizioni.
Carichiamo tutti sulla jeep e ancora via di corsa.
Per fortuna alla fine è andato tutto bene.

Il secondo episodio invece non si è concluso allo stesso modo.
Era un giorno come un altro e mi trovavo al cantiere dell’ospedale; verso le 9 del mattino vedo padre Tiziano correre avanti e indietro: ho capito subito che c’era qualcosa che non andava. Poi ho visto salire sulla jeep tre uomini e una ragazza: la dovevano sostenere perché non riusciva a stare in piedi e a camminare. Li ho guardati mentre partivano e ho chiesto a una suora che cosa fosse successo: stavano andando in città perché la ragazza avrebbe dovuto partorire tramite cesareo, per il quale lì non eravamo attrezzati.
Proviamo a immaginare la sofferenza di questa donna, sballottata per 4 ore sull’auto… Purtroppo non ce l’ha fatta. Quando a sera ho rivisto padre Tiziano, aveva gli occhi rossi e si capiva che aveva pianto. Mi dice: «Vedi Ugo, è brutto per un dottore vedere una giovane mamma morire e non poterci fare niente! È difficile prendere tutte le decisioni da solo, non avere un altro collega con cui consultarsi in questi casi. Devo decidere tutto io e in fretta».
Una volta alla settimana padre Tiziano va in città, a Bouar, dove si trova un grosso magazzino – di cui lui stesso è il responsabile – per far scorta di medicine. Bisogna tenere presente che per percorrere i 70 chilometri che separano Niem da Bouar (andata e ritorno), occorrono tra poco più di 6 ore.
Tiziano è uno che corre sempre (anche se, per forza di cose, non è mai possibile superare i 20 chilometri orari per strada), perché anche solo un minuto sprecato può risultare fatale.
Ricordo che un giorno (erano circa le 5 del pomeriggio, ero molto stanco ma in una mezz’ora avrei terminato il mio lavoro) vedo padre Tiziano e un uomo che vengono verso di me. Tiziano mi dice: «Ugo, quest’uomo è venuto a dirmi che sua figlia sta malissimo. Arriva dal confine con il Camerun, a 90 chilometri da qui, 10 ore di viaggio. Ha viaggiato per 40 chilometri su un camion, 10 su una moto che poi si è rotta e allora ha proseguito a piedi. Io come dottore devo andare. Vuoi venire con noi? Però dobbiamo partire subito».
Io esito un momento, poi accetto. Prendo qualche banana e via di corsa. Sulla jeep ne offro due all’uomo, che dice di non aver mangiato nulla in tutto il giorno; allora decido di dargli per la figlia anche le due che avrei tenuto per me… Per un bel po’ di tempo viaggiamo su una pista stretta e buia, illuminata solamente dalle luci della nostra auto; ai lati si vedono solo bosco e sterpaglie, ogni tanto qualche lume. Chiedo al dottore se non ha paura e lui: «Sì. Ho paura di arrivare tardi!».
Dopo circa 4 ore giungiamo a un villaggio: non so quanta gente ci fosse ad aspettarci. Ci fanno subito strada con la luce delle lanterne. Entriamo in una capanna: in un angolo, sopra un pagliericcio, è distesa una ragazza bellissima, di 12 anni, in coma. Di fianco a questo giaciglio c’è un palo infilzato a terra, al quale è fissata una flebo. Il dottore la visita e dice che bisogna portarla subito all’ospedale: ha una forte meningite, potrebbe morire da un momento all’altro; non può restare lì. Risaliamo sulla jeep e via di corsa, verso Niem.
Durante il viaggio non parlava nessuno: si sentiva solo la ragazzina che ogni tanto emetteva qualche lamento. Io mi giravo verso il sedile posteriore a guardarla: quanta tenerezza mi faceva! Non potevo fare nulla, però, all’infuori di pregare. Ripetevo dentro di me: «Signore, non abbandonarci». Arrivati in ospedale, verso le 3 del mattino, non c’era nemmeno un letto libero, così abbiamo dovuto sistemare la ragazzina per terra, su un materassino di gommapiuma.
Dopo qualche giorno sono andato a trovarla insieme a padre Tiziano. La vediamo su una branda presso la quale, a curarla, c’è la mamma. Tutti ci ringraziano moltissimo. Vederla che mi sorride mi fa provare una grande gioia e dagli occhi mi scendono tante lacrime. Anche il dottore è molto contento. Mi dice: «Vedi Ugo, noi facciamo tutto quello che possiamo, ma poi dobbiamo metterci nelle mani di Dio e avere fiducia in lui».
Un mese dopo ho visto ancora padre Tiziano piangere, ma – che bello! – questa volta di gioia. Stava per riportare la ragazzina, completamente guarita, dalla famiglia al villaggio. Allora ho proprio pensato: «Grazie Signore, non ci hai abbandonato».

Carissimi padre Tiziano, suore, infermieri dell’ospedale, vorrei dire grazie a tutti voi, un grazie che viene veramente dal cuore.
Grazie per ogni cosa che mi avete insegnato, per quello che ho potuto imparare da voi, soprattutto per i doni della pazienza, dell’amore e del sorriso che offrite sempre a tutti, malati grandi e piccini.
Vorrei essere un giornalista per poter raccontare tutto quello che ho visto e le esperienze che ho vissuto insieme a voi, da vent’anni a questa parte.
Mi limito a dirvi un’altra volta grazie: sarete sempre nel mio cuore.